La breaking new alle 13 di ieri: assegnato a Bob Dylan, il cantautore di Duluth, il Premio Nobel per la Letteratura per “aver creato una nuova espressione poetica nell’ambito della grande tradizione musicale americana”. Una notizia che si accavalla con la morte di Dario Fo, che già ha acceso le polemiche social tra chi lo rimpiange e chi lo ha sempre detestato (e ancora si chiede come sia stato assegnato proprio a lui il Nobel nel 1997, dopo la candidatura andata buca nel 1975).
E come ogni Nobel che si rispetti, fa discutere anche quello al cantautore che fa cullare dal vento domande e risposte. Ci si poteva aspettare la rabbia dei papabili, almeno secondo i bookmaker: Don DeLillo e Philip Roth. Ieri giravano sui social foto di chitarre fatte in mille pezzi: la presunta reazione dello scrittore ultraottantenne tra i più letti e premiati della sua generazione, dal racconto lungo Goodbye, Columbus a Lamento di Portnoy, passando per Pastorale americana e scoprendo l’altra faccia dell’America attraverso il suo alter ego Nathan Zuckerman, peraltro premiato al Pulitzer. Ma nessuna dichiarazione ufficiale, per carità. Né da Roth né da DeLillo, che peraltro alla vigilia era dato superfavorito, davanti a tanti altri ottimi nomi: il keniota Ngugi Wa Thiong’o, il bestellerista giapponese Haruki Murakami, il poeta siriano Adonis, l’Ibsen contemporaneo Jon Fosse, il poeta coreano Ko Un, Javier Marias, l’argentino Cesar Aira, Thomas Pynchon, la statunitense Joyce Carol Oates. I bookmaker avevano messo in coda gli italiani: Claudio Magris (quotato a 33 a 1), Elena Ferrante (50 a 1), Dacia Maraini (66 a 1).
Ma Stoccolma sa stupire ogni anno. E ieri lo ha fatto cantando.
Un canto che ha convinto molti, come lo scrittore Salman Rushdie, che affida il commento a un cinguettìo social, scrivendo su Twitter: «Da Orfeo a Faiz, la canzone e la poesia sono state sempre strettamente legate. Dylan è l’erede geniale della tradizione bardica. Grande scelta». Anche la scrittrice americana Joyce Carol Oates, altra possibile Nobel, commenta su Twitter: «A chi mi ha chiesto del Nobel a Dylan: una scelta ispirata e originale. Le sue memorabili musiche e parole sono sempre sembrate, nel senso più profondo, letterarie». Aggiungendo, a chi si rammaricava perché non era stata premiata: «Grazie! Ma, in termini di riconoscimento mondiale e influenza significativa su milioni (miliardi?) di vite umane, non c’è paragone tra romanzieri e musicisti».
Lo scrittore Irvine Welsh, sempre su Twitter, non approva: «Sono un fan di Dylan, ma questo è un premio pieno di nostalgia mal concepita, strappato dalla prostata rancida di senili hippy farfuglianti». Altrettanto pesante il post su Facebook di Haruki Murakami, autocitante dal romanzo Norwegian Wood: «Non dispiacerti per te stesso. Solo gli stronzi lo fanno».
Oggi tante altre ne leggeremo, meno a caldo.
Intanto registriamo le rimostranze di due “uomini di cultura” italiana.
Lo scrittore Alessandro Baricco dichiara all’Ansa che Dylan «è un grandissimo. Andare a un suo concerto oggi è una delle esperienze più grandi ed emozionanti che si possano fare nello spettacolo. Ma, per quanto mi sforzi, non riesco a capire che cosa c’entri con la letteratura». E ancora: «non c’è nessun paragone da fare tra il Nobel a Dylan e quello a Dario Fo. È molto diversa la situazione perché la scrittura del teatro, non ho bisogno di sforzarmi tanto per capire che c’entra con la letteratura. Che un drammaturgo vinca un premio alla letteratura ci sta, anche se in modo un po’ sghembo. È come se dessero un Grammy Awards a Javier Marias perché c’è una bella musicalità nella sua narrativa. Allora anche gli architetti possono essere considerati poeti». Che voglia provare a concorrere a Sanremo?
A Sanremo invece non c’è mai stato, Cesare Cremonini: preferisce girare con la sua vespa.
E anche lui, il cantante nato con i Lunapop ha di che ridire: «Il Nobel a Dylan è una truffa: è vero. Nessuno tra i suoi versi più visionari e poetici infatti, è stato scritto realmente da lui. Non ci credete? Chiedetegli come è andata. Vi risponderà di non saperne nulla. Il cantante che più di ogni altro ha influenzato la letteratura americana, colui che poco più che ventenne parlava e scriveva già alla pari con i grandi poeti della sua epoca, che lo consideravano a loro volta un loro pari, dirà che quelle piantagioni di parole in rima, nate calpestando la macchina da scrivere prima che la musica prendesse forma, quelle poesie vestite da canzoni, che i giovani di allora adottarono addirittura come mantra di una rivoluzione culturale, sono state scritte “per magia”. Dylan ne ripete i versi, guardandoti stupito negli occhi, come se li avesse scritti qualcun altro. “Prova a sederti ad un tavolo e a scrivere qualcosa del genere”, dice sorridendo. Se gli chiedete se ancora oggi possiede la formula magica di quell’incantesimo, lui vi risponderà, scuotendo la testa, di no. “Non posso più farlo”. Dylan ha più volte sostenuto di aver fatto, da ragazzino, un patto con il “chief commander”: colui che comanda su questa terra e su quella che non possiamo vedere. Chissà se il chief adesso pretenderà che gli venga riconosciuto il merito di questo Nobel».
Scene da Nobel. Che quest’anno davvero is blowin. Più che in the wind, in the anger.