di Laura Cirella | scirocconews
Ci sono almeno due modi per approcciarsi a Sono un ragazzo di paese, l’ultima creazione letteraria di Nino Mallamaci. La modalità di chi si approccia alla vita dell’amico Nino, che già conosce, con il suo fare rilassato e sornione, provocatorio e ironico, con le sue vicende più o meno paradossali o tragicomiche. Chi lo conosce, che ne è amico, sa già quanto sia spericolato alla guida, quanto sia attratto dal gentil sesso di bell’aspetto, quanto sia padre smisuratamente innamorato e quanto sia orgoglioso, a buona ragione, della sua storia personale e familiare. In tal senso il suo “libriccino”, come lui stesso lo definisce, ancora una volta teneramente simpatico verso sé stesso, non sarà altro che una conferma, una eclatante conferma, di chi è Nino Mallamaci, del suo spirito autentico e spudoratamente schietto. Chi gli vuole già bene gliene vorrà di più, perché ogni rigo è pura espressione del suo carattere e del suo stile di vita.
Vi è poi una seconda modalità per nulla scontata: quella puramente narrativa e letteraria. Seguendola il “libriccino” può rivelarsi ben più potente e con vocazione meditativa. Il “paese” di Nino Mallamaci si trasforma in uno stato d’animo che, a ben guardare, al giorno d’oggi, abbiamo del tutto smarrito. Oggi, immersi nella tentacolare rete senza limiti geografici del web e dei social network, non disponiamo più di quello stato d’essere ascrivibile a un luogo. Il “paese” di Nino, così come per altri il quartiere, il condominio, la città in cui si è fatta l’università…, è un limite geografico ormai smarrito che offriva orizzonti relazionali arcaici, forti, potenti. La tenerezza smisurata degli affetti, gli odori legati indissolubilmente ai ricordi, la semplicità dei giochi d’infanzia, un lessico famigliare che richiama una Calabria pietrosa e afosa. Il “paese” è scandito da tempi lenti e liturgici (…ogni estate… ogni domenica… ogni Natale…), offre un rituale rassicurante e rarefatto, rotto, nel racconto di Mallamaci, dallo spirito rivoluzionario della sua gioventù, tra ribellione e sogni, tra ambizioni e desideri, rivelando una purezza d’animo come quella di un bambino, tra l’eccitazione per le novità e il perdurare degli affetti familiari. Così, anche quando Nino lascia il “paese”, lui resta un ragazzo di paese, nelle sue avventure in una quotidianità urbana che gli richiede forte spirito di adattamento, in una sfida continua alla sorte e alle leggi di Murphy. Nino sopravvive agli eventi che sopraggiungono con una autoironia esilarante, sarcasmo, senso dello humor e, a dire la verità, una piacevolissima verve letteraria. E se quella semplicità e quella genuinità “motticiana” sono ormai dentro il narratore per sempre e non lo abbandoneranno mai, idem quel senso del rigore, quell’inflessibilità di fronte a ciò che è ingiusto, quell’intolleranza nei confronti dell’intollerante, quel dover fare una cosa perché è giusto che si faccia, piaccia o non piaccia. La parola diviene pietra, il sentimento diviene valore etico irrinunciabile. Il paese per lui è radice e dunque il narratore non può che essere radicale, in ciò che fa e pensa.
Ma vi immaginate, dunque, se ognuno di noi avesse un paese a cui ispirarsi? Vi immaginate se avessimo ancora tutti la possibilità, almeno per un minuto al giorno, di tornare alle nostre radici?
Nel 1950, Cesare Pavese, ne La luna e i falò, scrive: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.”
“Sono un ragazzo di paese” ci regala il gusto del viaggio dentro di noi, dell’abbandono e del ritorno alle nostre radici; lo fa in una maniera divertente, che ci lascia il sorriso stampato sulla faccia, senza angoscia e senza rimpianti, senza paturnie e senza recriminazioni, ma con quel piacere come di una buona lettura… all’ombra… al mare… in agosto.
di Lina Latelli Nucifero | Infooggi
I social sembrano dettare i ritmi e il senso della vita quotidiana del mondo occidentale priva di affetto ma desiderosa di successo immediato anche se solo in forma di like (mi piace). Questo il fulcro del libro “Faceboom – 18 vite incatenate ai tempi dei social” di Paola Bottero presentato al Caffè letterario “Il bosco dei perché” di Lamezia Terme nell’ambito della VI rassegna del “Maggio dei Libri”organizzata dal Sistema Bibliotecario Lametino e dal Comune di Lamezia Terme. Sull’importante argomento, di grande attualità, la blogger Ippolita Luzzo ha conversato con l’autrice esaminando le dinamiche del libro e i risvolti dell’uso e abuso del computer, del notebook, dello smart-phone sulla società odierna attraverso la storia di 18 vite incatenate ma autonome che si muovono in assoluta dipendenza dai social.
Le vite narrate rappresentano tante altre vite parallele che preferiscono apparire piuttosto che essere, costruirsi una vita superficiale piuttosto che vera lasciando poco spazio ai valori e ai sentimenti attaccati giorno e notte a Facebook ed estraniandosi dal resto del mondo. « Nessuna esplorazione di vita vera, niente che vada oltre l’interazione on line in una realtà che è un’implosione verso il nulla in un futile tentativo di sfuggire ad una solitudine patologica» ha affermato Paola Bottero che ha voluto inserire in questo spaccato sociale 18 solitudini che hanno rapporti apparenti con gli altri e non sostanziali.
«Sono rappresentati ragazzi, persone anziane di diversa cultura, giovani, di diversa provenienza geografica – ha aggiunto – che ho voluto mettere in tutta Italia perché il fenomeno, questo strapotere dei social che toglie potere alla vita reale, non è tutto calabrese ma è tutto italiano». Facebook non agisce solo a livello politico e ideologico ma diventa un mezzo in grado di alterare le fondamenta del vivere civile e portare alla deriva , specie i piccoli nativi digitali, se non viene usato con moderazione e in modo adeguato.
Le persone socialdipendenti credono che la vita sia apparenza, che possa essere costruita a proprio piacimento modificando la propria dentità, che si possa inventare una professione o un titolo di studio, un’immagine falsa di sé e che non si possa vivere di amicizia, amori e affetti autentici.
di Ippolita Luzzo | Trollip
“In Calabria esiste, soprattutto nei piccoli paesi il rimpianto nostalgico del passato. Oh com’era bella Cinquefrondi! e Taurianova? Taurianova era una piccola Parigi” racconta questa sera all’Uniter Nicola Fiorita facendo a me ricordare Argiroffi e Le azzurre sorgenti dell’Acheronte.
Manca in Calabria chi la racconti nel presente con lo stesso gusto di trovar il bello, il piacevole, la possibilità che ancora si possa essere felici qui, malgrado le brutture che la cronaca ci rimanda. Manca una narrazione della Calabria. Ed è ciò che hanno tentato Nicola Fiorita e Giancarlo Rafaele, i due autori di Il bicchiere mezzo pieno, una sfida quasi di risposta ad una affermazione di un curatore della Collana Laterza Contromano che dal 2004 segue un percorso di geografia narrativa.
di Ivana Badolato | post su Facebook |
Mi ero ripromessa di leggere il tuo libro non subito. Di proposito non subito, perché ci sono libri verso i quali non ne sai bene il motivo, ma devi maturare un’attesa prima di riporvi attenzione. Ecco ora so che aspettavo mi colpisse una sensazione e si paventasse uno spunto altro, oltre le riflessioni che ci hanno mosso alla discussione la sera che ci siamo conosciute. Lo spunto è arrivato nel momento in cui ho considerato la solitudine di ciascun allarme al terremoto, lanciato qui ed altrove, per informare su quanto stesse accadendo. Il Boato come un Boom! Mi mancano poche pagine alla fine, ma in realtà è una fine che si concentra già in ciascuno dei racconti.
La fine dell’umanità nell’uomo, la scomparsa di ogni genere d’affettività precipua, la disintegrazione dell’essenza di contenuti, la vacuità di certe rilevanze che hanno un volto e dei nomi, l’invadenza della totale mancanza di riflessione verso i sentimenti e di cosa essi rappresentino, unita anche alla paura, forse, di provare dolore, che spinge i protagonisti ad un’alienazione imperativa rispetto quel vuoto smisurato che riempie le loro ricche vite. Vite ricolme d’impegni, vite intense e codificate nei e dai ruoli sociali, ma che nel privato cattivo gusto di non poter esser colte nella loro pienezza interiore, non lasciano spazio all’intendimento che possano mutare, redimersi in qualche modo. Ed i protagonisti di tale meschina contemporaneità sono uomini e donne che davvero stanno alla pari! In un perfetto equilibrio diverso, giacché le vite sembrano concatenate, ma ciascuna è a sé. Centrata sull’ego sotteso alla propria storia. Dagli Appennini alle Ande, da Nord a Sud, isole comprese, dall’anima al merchandising della stessa e del corpo, con la sua totale scomparsa che trattiene ferite, ma non le sfoggia nel cyberspazio, solo nella tristezza di quanto esso esteticamente ed esteriormente può. Solo istintivamente comprende, aggiungerei.
La rabbia è la sola tra le emozioni ad essere più facilmente riconoscibile. Non credo sia un caso che di vite semplici che subiscono ci sia minore presenza rispetto quella di esseri dal profilo top level, ma che risulta tanto tap e questo è ciò che conta. La “bassezza”, in questo caso, è preludio per innalzare il pensiero a come ciò non dovrebbe essere, a quanto potrebbe essere diverso senza le “finte maschere” sociali che supportano i “finti” volti. Facebook è il perno su cui fanno leva le popolarità ciniche delle vite-pantomima descritte, per esprimere i loro salti nel vuoto, nel nulla. Un bisogno incessante di apparire, dove nessuno è e come nessuno in realtà può completamente essere, perché nessuno è solo virtuale. Se il reale non fosse spesso meglio di così, tanto varrebbe “cancellarsi” agli occhi del mondo, del resto con un click sopra una tastiera è facile! Se guardandosi allo specchio, l’umanità si riconoscesse intera nel leggere ciascuna riga di se stessa, ritornerebbe savia e salubre!
Grazie Paola dello scorrevole scritto, grazie per aver reso leggibile il “peggio” o comunque una sua porzione, e darci spunti su cui riflettere. TVB è proprio perché lo sento qui e fuori da questo carrozzone virtuale.
Nella mia piccola realtà vera, sai come abbia inteso anche l’uso scolastico e valorizzante di questo trabiccolo tecnologico e degli altri social e del loro uso non abuso, strumentale ed anche pregevole. Si possono sempre ribaltare i termini della questione, sempre si sia disposti a tentare ! Anche l’indignazione profonda verso gli argomenti proposti nelle 18 storie è una risposta di rabbia altra e costruttiva contro certi percorsi e vicende, non ti pare? Una grande abbraccio.
Livia Blasi intervista Paola Bottero: dal quarto d’ora di celebrità di Andy Warhol alle 18 storie incatenate di Faceboom.
[youtube https://www.youtube.com/watch?v=h3VKbcvItGA]
di Ivano Ferazzoli | BologninaBasement |
In molti ci hanno raccontato l’eroina, lo ha fatto Venditti con “Lilly Lilly Lilly Lilly, quattro buchi nella pelle”, ce lo ha spiegato in modo elegante Battiato con “Per Elisa non puoi più distinguere che giorno è”, ci ha provato anche Carboni ad avvertire Silvia con scarsi risultati ed infine ci siamo anche dovuti accollare Masini, che con il suo caratteristico pensiero positivo ci dice che “domani diventa mai”.
Chiunque ha scritto o cantato l’eroina, quello che vi propongo oggi però è un punto di vista diverso, ovvero il punto di vista di Domenico Salamone, aka Milingo Sutera, che attraverso il libro Storie tossiche, edito da Sabbiarossa Edizioni, ci propone sette storie differenti, sette ritratti, sette punti di vista: i racconti ci restituiscono letteralmente le vite di molteplici personaggi che si trovano a percorrere la stessa strada dell’autore, la strada dell’eroina, la strada della scimmia. Anche se il leitmotiv è uno, le pagine scivolano via tracciando un percorso molto sofisticato che va ben oltre la roba, perché di persone si parla. E per questo ringrazio Milingo, per avere riportato alla luce, “spada dopo spada”, storie gentili d’amore e disperazione, storie crude di stenti e d’ironia spiazzante, per avere richiamato a gran voce quei nomi e per avere strappato dal vortice dell’oblio i volti fragili dei figli dell’eroina.